Profondo Nordest e poesia

Ieri sono andato a Udine.

Beh, che c’è di strano? Direte voi, e infatti di strano non c’è niente, ma mi pareva un buon incipit per il post.

Insomma, sono andato a Udine perché la Libreria Tarantola, che vi invito a visitare se passare da quelle parti, ha ospitato la presentazione del progetto Digressioni Editore.

Di Digressioni vi ho parlato fino alla nausea: è una bellissima rivista, collaboro con loro da un anno, compratela perché merita, ecc. ecc. (a proposito: sta per uscire il numero nuovo). Ieri però la presentazione riguardava il progetto editoriale di Digressioni, ovvero la piccola casa editrice che è nata dalla rivista.

Se fondare una rivista è una follia, fondare una casa editrice è da Trattamento Sanitario Obbligatorio: le speranze di rimanere in vita dopo un anno sono pressoché nulle, i guadagni bassissimi e lo sbattimento enorme. In più devi anche avere a che fare con i disadattati che ti spediscono i loro manoscritti credendo siano dei capolavori. Per questo motivo nutro un’ammirazione sconfinata per Davide de Lucca, la mente dietro a Digressioni Editore: perché ha creato quello che io, con la mia razionalità di ferro, non ho mai avuto il coraggio di creare.

Perché dico tutto questo? per sbrodolarmi in lodi verso una cosa di cui, in qualche modo faccio parte? Non proprio: ieri infatti alla presentazione del progetto, sono rimasto colpito da una cosa:

la poesia è ancora viva.

E lo è davvero, non è una frase fatta per consolare quei pochi che ancora si esaltano di fronte a versi e libretti dalla copertina bianca, esiste tutto un sottobosco di persone giovani, brave e competenti che scrivono poesia, parlano di poesia, condividono poesia, promuovono poesia. Anche a Udine, anche nel profondo Nordest.

Io, come avrete capito, non sono un poeta, le mie uniche poesie risalgono all’adolescenza quando scrivevo cose tristissime andando a capo a metà frase e credevo di essere il nuovo Baudelaire. A me piace la narrativa, sento di non essere abbastanza profondo e attento ai dettagli per la poesia.

ma adoro i poeti. Mi piace il loro atteggiamento, il loro modo di pensare, i discorsi che fanno, il loro respirare continuamente la loro arte e, anche se li leggo poco, ringrazio che esistano.

Tutto questo per dire che ieri ho comprato Soglie di Transito, la raccolta di poesie pubblicata da Digressioni editore e, nella mia incompetenza, credo che dentro ci siano cose veramente belle.

Ovviamente se preferite la raccolta di racconti che contiene anche il mio Elegia per un Cantiere, non mi offendo mica…

Vi lascio con qualche foto della serata e con il link a un lavoro di Carlo Selan, che non è presente in Soglie di Transito ma collabora con Digressioni fin dagli esordi.

Letture a voce alta

Recentemente mi è capitato d leggere in pubblico alcuni miei racconti (questo e questo quasi per caso, e altri due alla festa di Natale di Digressioni).

Anche se non sono particolarmente bravo a farlo, leggere in pubblico mi piace, soprattutto quando si tratta di cose che ho scritto io, per cui, se capita, sono ben felice di farlo.

La lettura a voce alta, soprattutto di fronte a qualcuno che ti ascolta dal vivo, ha un sacco di difficoltà: intonazione giusta, volume della voce, ritmo, ecc. Quello che però mi crea più problemi è la velocità: io sono uno che legge veloce, parla veloce e tende pure a mangiarsi le parole, quindi quando leggo in pubblico devo forzarmi ad andare piano.

Sì, ma quanto piano?

Non è solo una questione di comprensibilità, ma anche di tempistiche: Quando ho aperto l’evento Ciarastea la scorsa vigilia di Natale in Loggia dei Cavalieri, mi è stato detto:

Prepara un racconto natalizio che si legga in due minuti

Certamente! Ma, in battute, quanto lungo è un racconto da due minuti?

Non lo sapevo, perciò ho chiesto aiuto al fido Google. Non so se ho cercato male ma non ho trovato molto, anzi l’unico risultato interessante è questa pagina, che vado a riassumervi qua sotto.

Il sito indica la velocità media di lettura ad alta voce (a mente si è più veloci) in parole e battute, che è:

125 parole/minuto

o, in alternativa, visto che mediamente una parola è fromata da 6 caratteri:

750 caratteri/minuto (spazi inclusi)

Sinceramente a me questi numeri sembrano bassini, vorrebbe dire che in due minuti si può leggere al massimo un racconto da 1500 battute, che è meno di una cartella editoriale (1800 battute).

Nel laboratorio di scrittura che sto seguendo per il master in Comunicazione delle Scienze a cui mi sono iscritto, abbiamo fatto una lezione sullo scrivere per la radio; in quel caso, la velocità massima di lettura per una notizia (non è proprio la stessa cosa che leggere di fronte a un pubblico in carne e ossa ma ci si avvicina) è stata indicata in:

180 parole/minuto

che, in caratteri, diventa;

1080 caratteri/minuto (spazi inclusi)

che forse è più ragionevole.

letture alla radio?

Io, per andare sul sicuro e non leggere “a macchinetta” mi sono tenuto sotto i 1000 caratteri/minuto e ho scritto un raccontino di 2000 battute. Alla fine sembra sia andata bene.

Se avete altri dati sulla velocità di lettura in pubblico ditemelo, mi piacerebbe saperne di più sull’argomento.

Dove vado: Ciarastea

La vigilia di Natale mi hanno chiesto di leggere un mio breve racconto (non più di 2 minuti di lettura a voce alta) per aprire Ciarastea, un evento benefico che si è svolto in varie piazze del centro di Treviso. Ovviamente ho accettato di buon grado per tutta una serie di motivi:

  • La richiesta è arrivata dalla direttrice artistica di Cartacarbone festival, che è stato chiamato per aprire la manifestazione;
  • come ho detto, l’evento serviva per dare sostegno e aiuto a Parent Project, un’associazione di pazienti e genitori con figli affetti da distrofia muscolare di Duchenne e Becker;
  • leggere, anche per pochi minuti, la vigilia di Natale nel pieno centro di Treviso in una Loggia dei Cavalieri addobbata a festa mi è sembrato un bell’onore e una discreta pubblicità.

A causa di qualche incomprensione con l’organizzazione, la pubblicità alla fine non è stata granché, ma il mio racconto l’ho letto e ho visto anche qualcuno tra il pubblico che sorrideva.

Eccomi a leggere in tutto il mio splendore! Grazie a Franco Favero per la foto

Se volete leggerlo anche voi, è qui e si intitola:

Babbo Media Manager

Nella sede della BN S.p.A., un elfo bussò all’ufficio del capo. «Buongiorno, signor Babbo.»
«Accomodati caro. Chi sei? Perdonami ma sto diventando vecchio, non ricordo più i nomi dei dipendenti.»
L’elfo si sedette. «Sono il Babbo Media Manager, signore.»
Babbo Natale finse di aver capito.
«E cosa posso fare per te?»
«Ho una proposta per modernizzarci un po’.»
Il principale si lisciò la barba.
«E cioè?»
«Le letterine signore, sono antiquate, ci sono i social network, è così che si comunica, oggi.»
Babbo Natale tolse il cappello rosso e si grattò la pelata.
«A me le lettere sembrano così poetiche…»
«Ma inefficienti, e antiecologiche, con tutta quella carta da smaltire. La gente oggi ci tiene, a queste cose.»
«Non sono convinto.»
«Si fidi di me, signore.»
Squillò il telefono. Un’ombra rannuvolò il volto di Babbo Natale. «Scusa ma devo andare, le renne minacciano uno sciopero, di nuovo. Se sei sicuro, procedi pure.»
«Grazie, signore.»
L’elfo creò i profili BabboOfficial su tutti i social. Fu un successo.
Si riuscì a sradicare la fake news che metteva in dubbio l’esistenza di Babbo Natale.
Il piccolo ufficio postale del Polo fu scaricato di lavoro.
Si capiva subito chi era stato buono.
Il principale era entusiasta.
Presto però nacquero i problemi.
Prima le richieste: la play, la voglio da un tera, altrimenti Leo piange; il trenino Lego mandamelo già montato, che non sono capace.
Poi le lamentele: trent’anni fa ti avevo chiesto il mostro di lava e non me l’hai portato!
Arrivarono i fanatici: io ti lascio solo latte di riso e biscotti gluten free.
Gli animalisti: maltratti le povere renne per il tuo tornaconto!
I complottisti: la tua slitta rilascia scie chimiche!
I comunisti: sei un fantoccio al servizio delle multinazionali!
E i cattocomunisti: e hai anche rubato il posto a San Nicola!
Facebook bloccò la pagina perché “non conforme alle linee guida della community.”
Ed è per questo che, anche quest’anno, a Babbo Natale i bimbi hanno spedito le letterine.

Dove vado: Volta la Carta

Capita che in questo periodo di feste di Natale (vi ho parlato della festa di Digressioni?), cene di Natale, spritz di Natale ci si perda qualche evento interessante. Ed è proprio quello che pensavo fosse successo a me con Volta la Carta, il primo di una serie di incontri, organizzati dalla scuola di scrittura Il Portolano, in cui si può leggere in pubblico un proprio breve testo.

L’evento era ispirato a De André che io conosco poco, e pensavo coincidesse con con la festa di Natale di Digressioni (ve ne ho parlato?), perciò avevo deciso di non partecipare. Ieri, però, dopo essermi accorto di aver sbagliato giorno, sono andato a vedere com’era la situazione.

Il problema di conoscere persone che organizzano serate di questo tipo è che rischi di venire prelevato di forza e buttato sul palco a leggere qualcosa che hai scritto, senza nessun preavviso. Ed è proprio quello che è successo a me.

Si cominciava verso le 18.00 e io mi sono presentato puntuale. Come capita spesso in questi casi non c’era ancora quasi nessuno, tranne Bruna Graziani, direttrice artistica di Cartacarbone e organizzatrice della serata, che, ancora prima di salutarmi mi dice: «Tu leggi, vero.» L’assenza di punto di domanda è voluta.

Solo che io non avevo preparato niente. Bruna insisteva, facendosi spalleggiare anche dalle sue complici, quindi ho lottato con la connessione 4G debole e ho scaricato un raccontino che ho scritto in un momento di disperazione quando ho accompagnato mio figlio a una festa di compleanno da MacDonald’s (se siete genitori potete capirmi).

Alcuni dettagli sono cambiati per proteggere la privacy dei bimbi e il finale non corrisponde alla realtà, però si tratta sostanzialmente di una storia vera.

Settenni

La festa dei settenni era appena iniziata e, puntuale come l’Happy Meal, era arrivato il mal di testa. Non c’era da stupirsi: chiudi una ventina di bambini in un McDonald’s e la pressione sonora supererà velocemente quella di un airbus al decollo.
Sedevo in un angolo, abbastanza vicino per controllare che mio figlio non venisse ucciso o uccidesse qualcuno, ma strategicamente defilato per non dover intrattenere conversazioni con qualcuno dei genitori che, ovviamente, non conoscevo. Croce e delizia del padre separato: sei spesso lontano da tuo figlio, ma non sei costretto a subire le continue feste di compleanno. Maledetti genitori, copulassero a ottobre, così i bimbi nascono in estate.
Avevo sperato fino all’ultimo in un malanno del festeggiato, un attacco di nausea di mio figlio, un blackout causato dalla pioggia, ma niente, tutti in perfetta salute e il locale con gli impianti elettrici in ordine. Odio questi McDonald’s così ligi alle regole di manutenzione.
Non potendo scappare mi sono dedicato completamente al telefonino, cercando un aiuto, seppur virtuale, da qualche contatto Telegram.
Ho inviato messaggi con metodo, partendo dalla A fino alla Z, ho mandato saluti perfino a Zibi Zeniadek, il muratore ceceno che mi aveva posato le piastrelle del bagno e di cui non sapevo nemmeno di aver salvato il numero. Mi ha risposto che non poteva aiutarmi e che, anche fosse stato disponibile, avrebbe preferito ripiastrellare i bagni pubblici di Grozny.
Gli amici, quelli veri che vedi nel momento del bisogno, invece hanno addotto scuse fallaci, come ad esempio l’abitare lontano. Ma cos’è la distanza tra Crema e Ladispoli quando devi salvare qualcuno da un’orda di settenni? Io, per un amico, sarei accorso. Non è vero, ma volevo farlo sentire in colpa. Ero solo e circondato, e nemmeno gli occasionali messaggi di sostegno potevano aiutarmi. Dovevo cavarmela da solo.
Ho pensato allora al gas: silenzioso, democratico, avrebbe steso indifferentemente genitori e bimbi e, lavorando bene sulle concentrazioni, sarei riuscito a non causare danni permanenti. Ho interpellato il mio mercante d’armi, purtroppo però le sostanze chimiche erano di difficile reperibilità e non sarei riuscito a ottenerle in tempo; lui insisteva sull’efficacia dei fucili automatici AKS a canna corta, ma aveva un concetto di “niente danni permanenti” piuttosto sfumato. Una leggera zoppia dovuta a un proiettile che frantumava la tibia o la sordità causata dalla raffica in un locale chiuso per lui non rientravano nel concetto di danno.
  La festa intanto continuava e il rombo dei bambini trapanava le orecchie. Nessuno ormai rispondeva più ai miei messaggi, mi avevano abbandonato, i bastardi.
A un tratto mi è venuta un’idea, dopotutto quello che diceva il mercante sull’efficacia delle armi da fuoco non era così sbagliato. Sono corso all’auto e ho aperto il bagagliaio: ricordavo bene, il mio vecchio costume da babbo natale era ancora lì. Ho afferrato il sacco e mi sono infilato nel bagno: la calzamaglia rossa mi andava un po’ stretta ma tutto sommato non stava male. Ho fatto irruzione nella sala della festa e sono piombato sopra un tavolo, calciando via bicchieri di Coca e McNuggets mezzi masticati. Genitori e bimbi mi hanno fissato ammutoliti, io li ho osservati tutti dall’alto ed ho emesso un ringhio basso e continuato. Qualcuno ha ridacchiato, l’ho fulminato con lo sguardo.
Tutti gli occhi erano puntati su di me, mi sono goduto il momento e mi sono concesso un sorriso sghembo, sono un maestro nelle pause a effetto. Poi ho urlato, più di tutti i bambini urlanti della città, ho estratto la vecchia Ruger, l’ho puntata in alto, poi verso i genitori che si sono buttati a terra con le mani sopra la testa. Sono saltato giù, rischiando di scivolare sul pavimento viscido, e mi sono precipitato fuori. 
Ho lasciato la macchina al parcheggio, qualcuno l’avrebbe recuperata e magari avrebbe anche riportato mio figlio alla madre, mentre io correvo in mezzo ai campi, sotto la pioggia, verso il mare.

Ed eccomi in tutta la mia bellezza mentre leggo il racconto dal telefonino. (foto di Franco Favero)

Quello che scrivo: L’Avvertimento

«La congiuntura storica e l’importanza paradigmatica dell’argomento mi impongono di trasgredire alla più fondamentale delle regole cronotopologiche ed essere qui con voi questa sera…»

Si fermò. Le persone lo fissavano con occhi sbarrati.

«Inferisco dalla vostra espressione che non mi comprendete, eppure mi sembrava di aver impostato il semanticatore sull’epoca corretta… poco male, farò senza.»

Infilò una mano in bocca, armeggiò un po’ ed estrasse un dente tenendolo tra pollice e indice. Dagli spettatori si levarono mormorii di disgusto, che divennero urla quando lui lo lanciò in mezzo ai tavoli.

«Che è sto casino? Mai visto cavare un semanticatore?» scosse la testa, «siete proprio una massa di babbi, scommetto che non sapete nemmeno come funziona… beh, quello neanche io… vabbè non importa, basta che ci capiamo.»

Tra il pubblico qualcuno aggrottò le sopracciglia.

«Sveglia!» gridò l’uomo, «e sì che mi avevano detto che eravate più intelligenti di noi…»

«Per quello ci vuol poco» commentarono dal basso, suscitando uno scroscio di risate.

L’uomo applaudì facendo il verso della foca. «Bravo, bravo. Adesso stai zitto e fammi parlare, ok?»

Un tappo a corona volò verso il palco e colpì l’uomo sulla fronte.

«Chi è stato, chi è lo stronzo che…»

«Ao, te decidi a parla’?» gridarono.

L’uomo lisciò i vestiti e si schiarì la voce. «Giusto. Dovete sapere che vengo dal futuro.»

«See, è arrivato John Titor!» Esclamarono.

L’uomo non si scompose e disse: «Non da quel futuro. Però sono qui per cambiare il corso della storia e se mi lascerete parlare vi spiegherò come.»

Tutti si zittirono, le luci si abbassarono e l’occhio di bue illuminò l’uomo in piedi di fronte al microfono, che iniziò a raccontare.

«Faccio parte di un piccolo gruppo di scienziati e uomini di cultura, come avrete sicuramente capito dalla mia intelligenza superiore.»

«See, come no!» Risatine. 

L’uomo fece una smorfia e continuò: «Un gruppo di scienziati che opera in clandestinità e che lotta per impedire quello che, secondo noi, porterà all’estinzione del genere umano.»

«Guarda che qua c’abbiamo già Greta che ce pensa lei!» commentarono dal pubblico.

L’uomo sbuffò. «Non parlo di quell’estinzione, abbiamo già sistemato tutto nel 2072.»

«Guerra nucleare?» chiesero.

«No.»

«Epidemia di ebola?»

«No.»

«Meteorite gigante?»

«No.»

«Trump?»

«No.»

«Il ritorno di Salvini?»

L’uomo rise. «Ma chi se lo fila quello!»

«E allora?»

«Nel futuro da cui vengo, grazie ai progressi delle biotecnologie, gli esseri umani sono diventati praticamente immortali.»

«I tuoi problemi, vorrei avecce!» gridò una ragazza dal fondo.

L’uomo sorrise. «Era quello che pensavamo anche noi, cosa c’è di meglio che essere immortali? L’umanità aveva sconfitto la morte, era diventata come Dio, l’eternità era di fronte a noi…»

«E invece?»

«E invece ci siamo scontrati con la realtà: un mondo di immortali è un mondo morto.»

«Ao, ha parlato er poeta!» commentò uno spettatore che in quel momento usciva dal bagno con una birra in mano.

L’uomo sul palco aggrottò le sopracciglia e si passò una mano tra i capelli. Sembrava che pensasse a qualcosa, però poi scrollò le spalle e continuò. «Immaginate di vedere sempre la stessa gente, di fare sempre le stesse cose, di mangiare sempre gli stessi piatti, e replicatelo per centinaia di anni; pensate di non avere nessuna urgenza, di non dover sbrigarvi a fare nulla perché tanto avete tutto il tempo del mondo di fronte a voi. Non siete morti biologicamente, ma lo è la vostra mente, morta di noia.»

Una donna sui quarantacinque si alzò. «Scusa vuoi fare a cambio? A me, tra figli da portare in giro, lavoro, e uno stronzo di marito che non mi aiuta mai, me ne servirebbero due di eternità per fare tutto.»

Le amiche ridacchiarono e fecero cenni di assenso, anche l’uomo rise, ma scosse la testa. «Tu pensi che sia così, ma la realtà è che essere immortali è una condanna, più che una benedizione.» Ci fu un mormorio tra il pubblico.

«Lo so, non mi credete, e non mi aspetto che lo facciate, però pensate a questo: che progresso può esserci in una società composta sempre dalle stesse persone? Che voglia di cambiare può avere chi ha le stesse abitudini da due secoli? La nostra è una civiltà morta, l’arte è solo ripetizione, la scienza non va avanti, è tutto fermo.»

«Annatevene allo stadio!» gridò un ragazzo con la maglia della Roma.

L’uomo sbuffò. «Sai quante volte ho visto il derby? Milletrecentododici, e sempre con le stesse formazioni, ormai non ne posso più.»

«Io Totti avrei voluto vederlo giocare per sempre» rispose il ragazzo.

L’uomo piegò la testa. «Credimi, non è così.»

«Ma nun c’avete figli? Gente nuova, pischelli?»

«E come potremmo? Le risorse sono limitate, nessuno metterebbe al mondo una creatura sapendo che non ci sarà da mangiare per tutti.»

«E che cazzo, allora ammazzateve fra de voi!» sbottò un uomo in ultima fila che aveva l’aspetto di chi avrebbe voluto volentieri far finire quella serata in rissa.

«Pensi che non ci abbiamo provato? Ma siamo diventati troppo codardi per ucciderci e troppo impediti per combattere. E poi abbiamo tutta una schiera di dispositivi e macchine predisposte per salvarci la vita, dipendiamo da loro e loro non ci lascerebbero mai morire.»

La platea era tornata silenziosa, l’uomo stava a capo chino sul palco, inondato dalla luce del faro, e il resto del locale immerso nell’oscurità sembrava fermo, congelato in una sorta di attesa triste. Dopo alcuni minuti un piccolo ometto, con gli occhiali tondi e pochi capelli, si alzò.

«Signore, la sua storia è certamente toccante, ma perché viene a raccontarla qui?»

L’uomo si drizzò e gonfiò il petto, lo sguardo risoluto dritto di fronte a lui. «Non avete capito? Sono venuto qui a chiedervi di bandire ogni ricerca sulle biotecnologie umane affinché questo scenario apocalittico non si verifichi mai!»

Gli spettatori parlottarono tra loro, poi una donna disse: «Ma che vuoi che facciamo noi, dove credi di essere, alle Nazioni Unite?»

L’uomo sbiancò in volto. «Veramente… sì.»

Tutti scoppiarono a ridere. «Buona questa, bravo!» gridarono, qualcuno fischiò.

«No, dico sul serio, queste non sono le Nazioni Unite?»

«A rincojonito, ma te sembra l’ONU questa? Nun vedi che stai sur palco de na birreria?»

«Birreria? Ma non siamo in via del Governo…»

«Del Governo Vecchio, sì, stamo ar centro de Roma, nel futuro nun te l’hanno insegnato che l’ONU sta a New York?»

L’uomo si lasciò cadere a terra, si prese la faccia tra le mani e cominciò a piagnucolare. «L’avevo detto io che i dati erano incompleti, che c’era qualcosa che non andava. Mi hanno spedito nel posto sbagliato, magari pure nel tempo sbagliato!»

«Quello non lo so, ma di sicuro non stai in America»

Alzò lo sguardo, le lacrime gli rigavano il volto che, all’improvviso, sembrava portare tutti i segni della sua età.

«E ora che faccio?»

L’altro si strinse nelle spalle. «Per stasera te fai du birette, domani, visto che passo de là, t’accompagno a Fiumicino che c’è n’amico mio che lavora in Alitalia, magari te rimedia un biglietto a basso prezzo.»

Quello che scrivo: L’ultimo uomo sulla Luna

Il primo, tutti a parlare del primo, ma dell’ultimo uomo sulla Luna non vi ricordate mai. No, non sto parlando di Gene Cernan, quello qualcuno lo conosce, sto parlando del vero ultimo uomo sulla Luna, il sottoscritto, James T. Caracciolo. 

Non è che io fossi esattamente il candidato migliore, con un cognome così la NASA non mi avrebbe mai fatto partire, loro cercavano veri eroi americani tutti d’un pezzo, ce lo vedete uno che si chiama Caracciolo farsi consegnare la medaglia dal presidente? Io però ho sempre sognato di fare l’astronauta, così mi sono fatto assumere dalla troupe di Kubrick come tutto fare.

Che c’entra Kubrick? Non ditemi che vi siete bevuti la storia del progetto Apollo? È tutto finto, una ricostruzione, vi pare che il Saturn V possa volare davvero?

Il vecchio Stanley comunque era un perfezionista e ha voluto carta bianca; certo, gli hanno detto i capoccioni della NASA, basta che fai una cosa che inganni tutti. Lui non ci ha pensato due volte, ha firmato il contratto e poi ha detto che se volevano un film verosimile non potevano girarlo in studio, ma in esterna. Fai pure, gli hanno detto gli alti papaveri, e lui: OK, allora portatemi sulla Luna. Alla NASA si sono guardati in faccia e hanno pensato: e adesso? Stanley però era irremovibile: Ho detto Luna e Luna deve essere.

Ed ecco che entro in gioco io. James, mi fa, tu che conosci tutti, non è che mi rimedi un passaggio spaziale?

Io chiamo certi miei amici italiani di Las Vegas, che nel quarantasette avevano aiutato i militari con una constatazione amichevole tra un P-80 e un trabiccolo pieno di omini grigi sopra Roswell, e tempo due settimane siamo tutti a far bisboccia a bassa gravità, Stanley fa il suo film, alla NASA sono tutti contenti e i Russi si mangiano il fegato condito con la vodka per l’invidia; tutto è bene quel che finisce bene.

Però adesso venitemi a prendere, che non ne posso più di questi nazisti che abitano sulla faccia nascosta, passano tutto il giorno a marciare e non offrono mai la birra.

Nuova rubrica: torte in forno

Inauguro con questo post la nuova rubrica “torte in forno” in cui scriverò dei progetti a cui sto lavorando o a cui voglio lavorare (Work in progress non mi piaceva, è una locuzione abusata), così i miei 25 lettori saranno sempre accuratamente edotti delle mie innumerevoli attività (questa frase è un classico esempio di inutile sfoggio di erudizione).

Ordunque veniamo al dunque, che sta combinando il Tonini? Ecco la solita lista disordinata.

  • Digressioni 11. Ormai è diventato un appuntamento fisso di scrittura, non solo di lettura; dopo il numero 10 disponibile ora, per il quale ho scritto solo un saggio, nel numero 11 potrebbe esserci un mio doppio contributo: saggio e racconto. Vedremo.
  • Concorsi letterari. Ci sono un po’ di concorsi a cui vorrei partecipare con un racconto:
  • L’Enciclopedia dei fastidi di Diego Tonini, un progetto di racconti “fastidiosi” di cui parlerò a tempo debito…

Ho tante altre idee in testa, e troppo poco tempo per realizzarle, ma di quelle parlerò nei prossimo post…

Ah, foto e colombe sono state gentilmente offerte dal mio amico Mario Pacchiarotti

Appunti di uno che scrive: le dediche

A volte capita, ma solo a volte, che una presentazione vada bene e che il pubblico presente, oltre a esserci, cosa non del tutto scontata, ascolti gli sproloqui dell’autore e alla fine decida perfino di comprare una copia del libro.

Ora, riprendendo un mio post precedente, mi sono fatto un’idea sul pubblico tipico di una presentazione che, da buon markettaro, illustrerò di seguito con un grafico a torta (lo so, i grafici a torta sono bellissimi).

Considerando una generica presentazione con un pubblico ragionevole, diciamo dieci persone, l’audience è così composto:

amici e parenti dello scrittore4
habitué del locale che si confondono con l’arredamento3
persone entrate per sbaglio o perché fuori piove2
sconosciuti realmente interessati1
totale10
il bellissimo grafico a torta che rappresenta il pubblico tipico di una presentazione (ve l’ho detto che amo i grafici a torta?)

È perciò poco probabile che qualcuno compri una copia del vostro libro, soprattutto dopo la prima presentazione, quando il bacino di acquisto da parte di amici e parenti si è esaurito. Tralasciando il 40% delle persone presenti che avete invitato voi, c’è comunque la remota possibilità che nel restante 60% ci sia qualcuno che, convinto dalla vostra performance o più probabilmente mosso a compassione, decida di prendere il libro.

A quel punto è molto probabile che si avvicini per chiedervi una dedica, richiesta a cui dovete farvi trovare pronti.

di seguito quindi elencherò, come sempre in ordine sparso e in modo parziale,

le cose da sapere quando scrivete una dedica.

  • premuratevi di avere con voi una penna. È piuttosto antipatico dover chiedere la penna al lettore, perché poi la userete anche per la persona successiva costringendo l’altro a starvi appiccicato tutto il tempo come un avvoltoio in attesa della preda, per farsi ridare la penna.
Io porto sempre con me le mie due penne preferite per firmare dediche in tutta comodità e sicurezza.
  • Chiedete il nome alla persona, non è carino dedicare il libro a Lisa anziché Luisa, o confondersi perché credete di conoscere chi avete davanti.
  • Ci sono due scuole di pensiero per le dediche: quella per cui si scrive una frase personalizzata a ognuno e quella in cui invece si usa sempre la stessa frase generica (un mio amico opta per la terza via, quella di scrivere titoli di film che gli sono piaciuti invece che la dedica, originale ma non so se apprezzata da tutti. Io propendo per la dedica personalizzata, mi sembra un gesto di rispetto e cura verso i propri lettori. L’unica cosa da non fare è firmare e basta, potrebbe risultare fruttuoso al vostro lettore nel caso voi diventaste famosi o moriste improvvisamente, ma comunque non è di buon gusto.
  • Scrivete in modo comprensibile, eventualmente in stampatello, non è carino che il lettore arrivi a casa, apra il libro, e si trovi quattro scarabocchi incomprensibili sulla prima pagina.
  • Sorridete, la persona che avete davanti ha appena speso dei soldi per voi dopo avervi sentito blaterare per un’ora, il minimo che si merita è un po’ di gentilezza.
  • Spendete un po’ di tempo chiacchierando col lettore, magari chiedetegli anche di farvi sapere come ha trovato il libro, ben pochi lo faranno, ma è un modo per instaurare un rapporto.
  • Non arrabbiatevi se qualcuno dopo la presentazione non compra una copia, non potete conoscere le sue disponibilità economiche né i suoi gusti letterari, vi ha già fatto un favore ascoltandovi.
guardate la gioia di una lettrice dopo che gli avete scritto una bella dedica…

OK, credo di aver detto più o meno tutto quello che mi veniva in mente, quindi posso lasciarvi con qualche foto della mia ultima presentazione alla Libreria San Leonardo di Treviso, dove ho anche firmato qualche dedica!

Quello che leggo (e vedo): Scatti. Scritti.

dal 6 aprile al 15 maggio a Pordenone una mostra da non perdere che unisce fotografia e Racconto.

Se dovessi usare una sola parola per descrivere i lavori di Francesca Zanette, sceglierei “grazia”. Le sue foto, i loghi che crea, i disegni in bianco e nero all’apparenza così semplici, tutto quello che fa esprime grazia ed eleganza. Il messaggio di ogni sua opera è espresso con forza ma mai urlato e proprio per questo arriva ancora più chiaramente. Se avesse un suono, la sua produzione sarebbe una musica soffusa, che necessita attenzione per essere ascoltata ma che poi si rivela con una forza che non ti aspetti.

Scatti. Scritti. definisce completamente l’animo artistico di Francesca: c’è la parte visiva, le fotografie e la parola, i testi scritti, e le due cose non sono giustapposte ma rappresentano due metà di un assieme, ognuna capace di vita propria, ma rafforzate a vicenda quando stanno vicine, come cappuccino e cornetto, dice Francesca.

In Scatti. Scritti. l’immagine non illustra il racconto e il racconto non spiega l’immagine, le due parti si specchiano fra loro, si rilanciano suggestioni e si amalgamano; Scatti. Scritti. non è un’opera fotografica e nemmeno una prova letteraria, è qualcosa di diverso è l’unione di due mezzi all’apparenza antitetici per veicolare emozioni; Francesca ha visto qualcosa e ne ha fatto fotografia e storia e porge le due cose allo spettatore mettendo, a nudo la sua sensibilità.

Per aggiungere forza evocativa alle opere Francesca ha scelto di riportare il testo a scrivendolo a mano, in alcuni casi su un vetro trasparente che si può muovere sopra l’immagine e che proietta l’ombra delle parole sulla foto stessa, in modo sempre diverso a seconda della luce e della posizione, un altro piccolo tocco di grazia che si aggiunge a qualcosa di già bello.

Si può vedere Scatti. Scritti. a Pordenone, alla galleria Due Piani fino al 15 maggio 2019.

Appunti di uno che scrive: la ricerca dell’editore

macchina da scrivere con foglio con su scritto END

Conoscete qualche scrittore? Bene, se dice che scrive per se stesso, che non gli importa di chi lo legge, non credetegli: tutti quelli che dicono di scrivere lo fanno per essere letti, nessuno escluso; chi non vuole un pubblico tiene i suoi manoscritti nascosti e non racconta in giro che li scrive.

Non tutti però arrivano alla pubblicazione, quasi nessuno ci arriva facilmente, pochi sono poi soddisfatti dei risultati ottenuti e una percentuale minima guadagna abbastanza per vivere con i libri pubblicati.

Lo ripeto, più per me che per voi:

A fare lo scrittore non ci si campa.

Sì, è vero, ma sai, forse io, o magari una botta di c… no, piuttosto prova il trading on line, le criptovalute, i trucchi che i padroni dei casinò non ti vogliono far sapere o il superenalotto, ma non pensare di far soldi scrivendo.

Chiarito questo concetto, passiamo subito a enunciare un’altra grande verità:

L’editore perfetto non esiste (nemmeno se sei tu).

Mi spiego meglio: se si vuole pubblicare esistono 2 possibili strade: cercarsi un editore oppure fare da soli. Se siete minimamente interessati alle dinamiche editoriali, in rete avrete già trovato migliaia di discussioni e altrettanti flame su quale delle due sia meglio. Io le ho seguite entrambe perché mi piace avere sempre più di una possibilità, e penso che ci siano pro e contro in ognuna delle due.

In estrema sintesi, le differenze tra l’autopubblicazione e la pubblicazione con editore sono: l’editore, in cambio di una percentuale (maggioritaria) sui diritti di sfruttamento commerciale dell’opera si occupa dell’editing, della copertina, della stampa, della commercializzazione e della distribuzione del vostro libro, cose che nell’autopubblicazione dovete fare da voi e, credetemi, anche se pensate di essere bravi a editare voi stessi e a farvi le copertine, non è vero, avrete bisogno di qualcuno che vi aiuti, possibilmente non vostro cugino. Allora perché il self publishing? Perché se fate da soli avete il controllo su tutte le fasi del processo editoriale, dalla scrittura alla vendita e, se fate le cose bene, il guadagno a copia venduta è sicuramente maggiore. Però dovete fare le cose bene, e non è facile.

In tutto questo ho volutamente trascurato l’editoria a pagamento: un editore serio non chiede soldi per pubblicarvi, ma ottiene il guadagno attraverso le vendite del libro, proprio come voi. Dovete diffidare di qualsiasi contratto che preveda un contributo dell’autore, anche sotto forma di acquisto obbligato di copie per due motivi:

  1. Se pagate voi l’editore, questi non ha nessun interesse a realizzare un prodotto appetibile per il pubblico e a commercializzarlo, perché il suo guadagno l’ha già realizzato con i vostri soldi;
  2. con il contributo chiesto dall’editore potete pagarvi invece un editor e un copertinista e poi autopubblicarvi, con maggiori soddisfazioni.

Detto ciò, per trovare un editore quello che bisogna fare è cercarlo. Tautologico, vero? Sì, ma non così scontato: un editore non vi proporrà mai di sua sponte un contratto, siete voi che dovete inviare il manoscritto e fare in modo che vi noti nella marea di email che riceve. Sfatiamo subito due miti:

  1. non è vero che vengono pubblicati solo quelli che hanno conoscenze, vengono pubblicati quelli che hanno, o sono, un prodotto vendibile, vendibile per l’editore, che ragiona con logiche diverse dalle vostre perché normalmente con l’attività editoriale ci paga le bollette e non lo fa per hobby come la maggior parte degli scrittori esordienti.
  2. La casa editrice non vi ruberà il manoscritto per poi pubblicarlo a nome di un altro, primo perché probabilmente fa schifo e secondo, perché poi dovrebbe pagare un ghostwriter per rivederlo, correggerlo e sistemarlo, cosa che lo scrittore esordiente fa di buon grado gratis.
uomo con binocolo nel deserto
dov’è la casa editrice giusta per me?

Come si fa a contattare una casa editrice? Semplice: si va sul loro sito alla sezione “manoscritti” e si seguono le regole che quasi sicuramente hanno scritto. Ci sono comunque delle regole di validità generale, basate più che altro sul buon senso ma che è sempre meglio non dare per scontate.

  • Seguite le indicazioni che vi danno: se richiedono sinossi e primi quattro capitoli è inutile mandare tutto il manoscritto; se accettano solo invii cartacei, non mandate una mail, tanto la cestinano.
  • Sembra banale, ma siate cortesi: nel corpo della lettera salutatevi, presentatevi brevemente, ringraziate per l’attenzione, firmatevi lasciando anche il recapito telefonico. una mail vuota con un allegato word non è il miglior biglietto da visita.
  • non lodatevi né mortificatevi, non millantate amicizie altolocate, non usate font strani o colori sgargianti, non cercate di fare gli originali a tutti i costi, quello che conta è il manoscritto.
  • curate la sinossi, è la prima cosa che viene letta. Se non riuscite a riassumere l’idea portante del romanzo in poche righe, forse non c’è un’idea portante.
  • se dicono che vi faranno sapere entro sei mesi, non chiamate dopo una settimana.
  • inviate a case editrici che hanno una linea editoriale corrispondente alla vostra opera; se avete scritto un romanzo di formazione ambientato nella Danimarca del settecento, difficilmente lo vedrete pubblicato da Fanucci. A meno che non ci siano i robot, ovviamente.

Come ho scritto all’inizio, la casa editrice perfetta non esiste, non perché gli editori non facciano bene il loro lavoro, semplicemente perché la perfezione non è di questo mondo e se un editore è forte in un campo, come la presenza fisica alle fiere, può non esserlo altrettanto sui social, per esempio, ma questo non vuol dire che non si possa stabilire una collaborazione proficua e basata sulla fiducia.

Devo ammettere che io sono stato fortunato: ho pubblicato due libri con due case editrici diverse, e un terzo sta per uscire con un’altra; cono ogni editore mi sono trovato bene, ho creato un rapporto basato sulla fiducia e l’amicizia, ho imparato e mi sono pure divertito.

Il mio primo romanzo – Storie di Okkervill – è uscito con Gainsworth Publishing, una piccola casa editrice specializzata in fantasy: sono molto selettivi, pubblicano pochi titoli l’anno, curano particolarmente la stampa e la veste grafica ma non tralasciano la presenza in ebook sui principali store. Non fanno molte fiere, ma in quelle a cui partecipano si spendono molto per eventi e presentazioni.

Nella botte piccola ci sta il vino cattivo, pur essendo il primo romanzo che ho scritto, è uscito successivamente con Nativi Digitali Edizioni, una casa editrice di Bologna che, come dice il nome, è nata proponendo opere in ebook anche se si è successivamente allargata al cartaceo. Fedeli al loro spirito, i Nativi basano la loro strategia di marketing prevalentemente sulla presenza i rete, attraverso il loro sito e sui social, anche se ogni tanto potete vederli a fiere e manifestazioni in giro per l’Italia. Hanno un catalogo ampio, apprezzano le storie fuori dalle righe che hanno qualcosa di originale.

Niente di umano all’orizzonte è una raccolta di racconti e uscirà i primi di aprile per Scatole Parlanti, uno dei tre marchi editoriali del Gruppo Alter Ego. Sono appena entrato nella loro scuderia quindi non posso fornire giudizi completi ma sono rimasto molto colpito dalla loro professionalità e dalla visione chiara che hanno del loro lavoro. Comunicazione puntuale anche via telefono, chiarezza, supporto all’autore e massima disponibilità sono caratteristiche che ho notato fin da subito.

Concludo dicendo che le piccole realtà editoriali italiane, come quelle che ho descritto sopra, fanno un lavoro difficile e irto di ostacoli, in cui le soddisfazioni sono poche e i bocconi amari da ingoiare tanti, ma realizzano spesso prodotti di ottima qualità che non hanno nulla da invidiare a quelli delle grandi realtà italiane ed estere. Comprare un libro di un piccolo editore è una piccola spesa che però può aiutare imprenditori giovani e coraggiosi, rendere felice un autore e regalarvi preziosi momenti di piacere nella lettura.