Dove vado: Volta la Carta

Capita che in questo periodo di feste di Natale (vi ho parlato della festa di Digressioni?), cene di Natale, spritz di Natale ci si perda qualche evento interessante. Ed è proprio quello che pensavo fosse successo a me con Volta la Carta, il primo di una serie di incontri, organizzati dalla scuola di scrittura Il Portolano, in cui si può leggere in pubblico un proprio breve testo.

L’evento era ispirato a De André che io conosco poco, e pensavo coincidesse con con la festa di Natale di Digressioni (ve ne ho parlato?), perciò avevo deciso di non partecipare. Ieri, però, dopo essermi accorto di aver sbagliato giorno, sono andato a vedere com’era la situazione.

Il problema di conoscere persone che organizzano serate di questo tipo è che rischi di venire prelevato di forza e buttato sul palco a leggere qualcosa che hai scritto, senza nessun preavviso. Ed è proprio quello che è successo a me.

Si cominciava verso le 18.00 e io mi sono presentato puntuale. Come capita spesso in questi casi non c’era ancora quasi nessuno, tranne Bruna Graziani, direttrice artistica di Cartacarbone e organizzatrice della serata, che, ancora prima di salutarmi mi dice: «Tu leggi, vero.» L’assenza di punto di domanda è voluta.

Solo che io non avevo preparato niente. Bruna insisteva, facendosi spalleggiare anche dalle sue complici, quindi ho lottato con la connessione 4G debole e ho scaricato un raccontino che ho scritto in un momento di disperazione quando ho accompagnato mio figlio a una festa di compleanno da MacDonald’s (se siete genitori potete capirmi).

Alcuni dettagli sono cambiati per proteggere la privacy dei bimbi e il finale non corrisponde alla realtà, però si tratta sostanzialmente di una storia vera.

Settenni

La festa dei settenni era appena iniziata e, puntuale come l’Happy Meal, era arrivato il mal di testa. Non c’era da stupirsi: chiudi una ventina di bambini in un McDonald’s e la pressione sonora supererà velocemente quella di un airbus al decollo.
Sedevo in un angolo, abbastanza vicino per controllare che mio figlio non venisse ucciso o uccidesse qualcuno, ma strategicamente defilato per non dover intrattenere conversazioni con qualcuno dei genitori che, ovviamente, non conoscevo. Croce e delizia del padre separato: sei spesso lontano da tuo figlio, ma non sei costretto a subire le continue feste di compleanno. Maledetti genitori, copulassero a ottobre, così i bimbi nascono in estate.
Avevo sperato fino all’ultimo in un malanno del festeggiato, un attacco di nausea di mio figlio, un blackout causato dalla pioggia, ma niente, tutti in perfetta salute e il locale con gli impianti elettrici in ordine. Odio questi McDonald’s così ligi alle regole di manutenzione.
Non potendo scappare mi sono dedicato completamente al telefonino, cercando un aiuto, seppur virtuale, da qualche contatto Telegram.
Ho inviato messaggi con metodo, partendo dalla A fino alla Z, ho mandato saluti perfino a Zibi Zeniadek, il muratore ceceno che mi aveva posato le piastrelle del bagno e di cui non sapevo nemmeno di aver salvato il numero. Mi ha risposto che non poteva aiutarmi e che, anche fosse stato disponibile, avrebbe preferito ripiastrellare i bagni pubblici di Grozny.
Gli amici, quelli veri che vedi nel momento del bisogno, invece hanno addotto scuse fallaci, come ad esempio l’abitare lontano. Ma cos’è la distanza tra Crema e Ladispoli quando devi salvare qualcuno da un’orda di settenni? Io, per un amico, sarei accorso. Non è vero, ma volevo farlo sentire in colpa. Ero solo e circondato, e nemmeno gli occasionali messaggi di sostegno potevano aiutarmi. Dovevo cavarmela da solo.
Ho pensato allora al gas: silenzioso, democratico, avrebbe steso indifferentemente genitori e bimbi e, lavorando bene sulle concentrazioni, sarei riuscito a non causare danni permanenti. Ho interpellato il mio mercante d’armi, purtroppo però le sostanze chimiche erano di difficile reperibilità e non sarei riuscito a ottenerle in tempo; lui insisteva sull’efficacia dei fucili automatici AKS a canna corta, ma aveva un concetto di “niente danni permanenti” piuttosto sfumato. Una leggera zoppia dovuta a un proiettile che frantumava la tibia o la sordità causata dalla raffica in un locale chiuso per lui non rientravano nel concetto di danno.
  La festa intanto continuava e il rombo dei bambini trapanava le orecchie. Nessuno ormai rispondeva più ai miei messaggi, mi avevano abbandonato, i bastardi.
A un tratto mi è venuta un’idea, dopotutto quello che diceva il mercante sull’efficacia delle armi da fuoco non era così sbagliato. Sono corso all’auto e ho aperto il bagagliaio: ricordavo bene, il mio vecchio costume da babbo natale era ancora lì. Ho afferrato il sacco e mi sono infilato nel bagno: la calzamaglia rossa mi andava un po’ stretta ma tutto sommato non stava male. Ho fatto irruzione nella sala della festa e sono piombato sopra un tavolo, calciando via bicchieri di Coca e McNuggets mezzi masticati. Genitori e bimbi mi hanno fissato ammutoliti, io li ho osservati tutti dall’alto ed ho emesso un ringhio basso e continuato. Qualcuno ha ridacchiato, l’ho fulminato con lo sguardo.
Tutti gli occhi erano puntati su di me, mi sono goduto il momento e mi sono concesso un sorriso sghembo, sono un maestro nelle pause a effetto. Poi ho urlato, più di tutti i bambini urlanti della città, ho estratto la vecchia Ruger, l’ho puntata in alto, poi verso i genitori che si sono buttati a terra con le mani sopra la testa. Sono saltato giù, rischiando di scivolare sul pavimento viscido, e mi sono precipitato fuori. 
Ho lasciato la macchina al parcheggio, qualcuno l’avrebbe recuperata e magari avrebbe anche riportato mio figlio alla madre, mentre io correvo in mezzo ai campi, sotto la pioggia, verso il mare.

Ed eccomi in tutta la mia bellezza mentre leggo il racconto dal telefonino. (foto di Franco Favero)